Passato in rassegna anche il 16° e ultimo film in concorso – Henry di Alessandro Piva – non rimane che attendere i verdetti finali, ai quali seguirà l’anteprima di Hereafter di Clint Eastwood (qualche audace in questi giorni ha provato a far circolare la voce di una sua presenza a Torino, subito smentita), evento di chiusura del TFF in uscita nelle sale italiane a gennaio.
Unico lungometraggio italiano della competizione, Henry (voto 4 ½) è una scelta quantomeno curiosa, soprattutto alla luce delle mille polemiche passate e presenti (e future) sullo scarso valore delle opere di casa nostra portate in giro ai festival internazionali. Strutturato come un polizi(ott)esco, l’opus numero tre di Piva (girandola metropolitana di omicidi, scontri fra gang e faide per la conquista del mercato dell’eroina) soffre della (troppo spesso) solita “ansia da prestazione” italica: sceneggiatura elaborata e macchinosa spesso risibile, mix di recitazioni professionali e amatoriali, tensione verso il modello americano vanificato da provincialismi vari e pretesa di prendersi dannatamente sul serio. Uno sconclusionato buco nell’acqua, che chissà se vedrà mai la luce della distribuzione.
Gli assi nella manica calati prima della fine sono stati altri, nel ricco carnet proposto dal direttore Amelio e dai suoi collaboratori. Considerando che alla gara sono ammesse solo le opere prime, seconde e terze, vale la pena puntare forte su Small Town Murder Songs (voto 8) del canadese Ed Gass-Donnelly, che alla sua seconda regia ci regala un epico thriller costruito intorno ad una sorprendente colonna sonora gospel-rock e a evocative scene al ralenty; sul belga Vampires (voto 8), folle terzo lavoro dell’altrettanto folle regista Vincent Lannoo, strepitosa satira politica che mescolando documentario, b-movie e commedia inquadra la vita quotidiana della famiglia Saint-Germain, vampiri moderni annoiati dalla propria immortalità; e sul già menzionato (puntata numero 2 di questo diario di viaggio) Winter’s Bone (voto 7 ½).
E ancora altri scatti, altre istantanee che nel bene e nel male aiuteranno a farci ricordare questa 28a edizione: Jack Goes Boating (voto 7) di Philip Seymour Hoffman, che all’esordio dietro la macchina da presa dimostra attraverso la storia dell’ impacciato Jack di non temere il cinema sentimentale (laddove ben strutturato e non fine a se stesso) e di inseguire già un suo personale percorso classico; Burlesque (voto 5), tripudio di paillettes e visioni patinate con protagoniste le icone gay Cher e Christina Aguilera (un’icona anche in colonna sonora: Madonna), altra faccia della medaglia dell’iperrealista Tournée (voto 7 ½) di Amalric; la doppietta indie-pendente formata da Cyrus (voto 6) e Super (voto 6 ½) con l’irresistibile overacting di Jona Hill (il grassottello di Suxbad) ed Ellen Juno Paige; e infine gli incontri, quello con un al solito incontenibile Paolo Rossi (per la presentazione di Ridotte Capacità Lavorative, docufilm surreale sugli operai Fiat di Pomigliano d’Arco, voto 6+) e quello con Carlo Verdone, giovane 60enne amante di Fellini e della commedia all’italiana di e con Alberto Sordi.
Ed ora, a pochi centimetri dal traguardo, non resta che attendere e capire se dare o meno retta ai rumors dell’ultim’ora, che danno come favoriti il giapponese Last Chestnuts (critica), breve ma intensissima ricerca di un figlio da parte di una commovente e pudica madre, e The Bang Bang Club (pubblico), storia vera – ma assai romanzata – di 4 giovani reporter fotografici nel Sud Africa pre-Mandela martoriato dall’Apartheid.
Alla giuria capitanata da Marco Bellocchio l’ardua sentenza.
a cura del nostro inviato a Torino Filippo Zoratti
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