Su WhatsApp si può sparlare del capo. Un caso di Udine fa scuola. Non licenziabile chi sparla del capo su WhatsApp.
Per la Cassazione si può sparlare del ‘boss’ senza perdere il lavoro: non può essere licenziato chi sparla del datore su WhatsApp con un collega. E’ esclusa la violazione dei principi di correttezza e buona fede perché i giudizi, per quanto di contenuto discutibile, sono espressi nell’ambito di una conversazione privata e fra privati, senza alcun contatto diretto con altri compagni di lavoro. Di più: scatta la reintegra perché il giudice del merito può sussumere la condotta addebitata al lavoratore e accertata nella causa nella previsione del contratto che punisce l’illecito disciplinare con sanzione conservativa. E ciò anche se la previsione risulta espressa attraverso clausole generali o elastiche. È quanto emerge dalla sentenza 11665/22, pubblicata l’11 aprile dalla sezione lavoro della Cassazione.
Bocciato il ricorso incidentale dell’azienda, accolto quello principale del lavoratore. Resta confermata la valutazione della Corte d’appello di Trieste secondo cui sono irrilevanti sul piano disciplinare, pur se disdicevoli, gli apprezzamenti espressi in chat sul presidente e sull’amministratore delegato della società. Conta il contesto: si tratta di una conversazione extralavorativa, del tutto personale e dunque circoscritta in un ambito totalmente estraneo all’azienda. La donna con cui chatta il lavoratore, oltre a essere un’ex collega, ha avuto una relazione con l’incolpato. Ma poi i due finiscono in tribunale per l’affidamento del figlio. E la conversazione su WhatsApp è rinvenuta in un computer aziendale. Né si può sostenere che la condotta sia in sé potenzialmente lesiva a causa dello strumento di comunicazione utilizzato, cioè l’app di messaggistica: pesa il profilo soggettivo, risulta escluso in fatto che le dichiarazioni siano anche solo ipoteticamente finalizzate a un’ulteriore diffusione. Sbaglia tuttavia la Corte d’appello a escludere la reintegra, concedendo la mera tutela risarcitoria, sul rilievo che la norma collettiva è «formulata in un modo assai generico e indefinito»: anche in tal caso, infatti, non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato l’interpretazione del giudice laddove sussume la condotta addebitata nella clausola contrattuale che punisce l’illecito con sanzione conservativa; l’operazione resta nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità, come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo. Nel dettaglio i giudici di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, ha respinto il ricorso della Italpol di Udine di far dichiarare di rilievo disciplinare il comportamento del comandante delle guardie giurate. L’uomo, in una conversazione con un’ex collega, aveva detto di tutti i colori del presidente e dell’amministratore delegato della società. Sul pc aziendale, però, era rimasta traccia della conversazione. Da qui la richiesta della spa, che riteneva lesivi i commenti. I giudici hanno rilevato che in una conversazione privata i giudizi, anche se discutibili, non violano i doveri di correttezza e buona fede nello svolgimento del rapporto di lavoro. E’ stato accolto, invece, il ricorso del comandante che per altri addebiti aveva perso il posto con il diritto solo ad alcune mensilità. Ora il caso tornerà alla Corte d’Appello di Trieste perché gli ermellini invitano a valutare la possibilità di dare sanzioni conservative con il mantenimento dell’impiego.