di Lucia ScopellitiFine pena mai. Nonostante ieri sia stato il primo giorno di ‘libertà’ per C.P., medico di famiglia di Castiglione d’Adda – zona rossa lombarda – e la sua collega, dopo la quarantena di 14 giorni osservata per essere state in contatto con decine di pazienti positivi al nuovo coronavirus, per le due dottoresse non c’è stato tempo né motivo di festeggiare. C.P. ha arruolato persino il marito per rispondere alle telefonate, perché “non potevamo lasciare vuota la segreteria con tutta la gente che chiama ancora 24 ore su 24”, e subito si è messa in moto per le visite domiciliari. Ben 10 nel primo giorno di piena operatività, con tre pazienti inviati in ospedale.
“Dovendo stare lontane da tutti, avevamo parecchi arretrati e la situazione qui è ancora molto difficile – spiega il ‘camice bianco’ all’AdnKronos Salute – In genere capita di avere al massimo tre polmoniti fra i propri assistiti e questi pazienti ce li possiamo coccolare”. In tempi di Covid-19, invece, la dottoressa di Castiglione d’Adda, pieno epicentro dei contagi, si ritrova ad avere “42 pazienti ricoverati, in una fascia d’età fra i 50 e gli 80 anni, quella più colpita, ancora socialmente attiva”. Non solo: “Mi resta ancora una lista di circa una dozzina di assistiti che si trovano a domicilio a rischio di aggravamento, a parte due di loro che stavano meglio, tutti da monitorare”. Nella serata di ieri C.P. era ancora in studio. “Sono giorni in cui si lavora senza tregua, siamo cotti. E mi terrorizzava quello che avrei potuto trovare alla fine della quarantena. Non vediamo ancora grandi prospettive”, sottolinea.
Dopo giorni passati a dormire in ambulatorio, il medico ha potuto far ritorno a casa. E’ andata a trovare la mamma anziana che non vedeva ormai da due settimane e si è rimessa al lavoro. Tempo per i figli poco, in questi giorni di emergenza. Ma “già la popolazione qui fa fatica, si sente abbandonata sul fronte sanitario – testimonia C.P. – perché ci sono dei problemi veramente grossi soprattutto per i pazienti di gravità intermedia. Dobbiamo fare possibile”.
Così le due dottoresse hanno “rispolverato la dotazione di presidi di protezione che avevamo darsi tempi della Sars. In particolare le visiere per coprire gli occhi, visto che stavolta non ce ne hanno date”. Hanno preso i due camici monouso che gli sono stati distribuiti “e che vanno usati con parsimonia, vista la grave carenza”, e guanti e mascherine, e hanno cominciato a visitare. Qualche miglioramento c’è stato, dice C.P.: con l’aumento dei posti in rianimazione “osserviamo tempi più celeri per la presa in carico dei pazienti, dopo le attese indecenti anche di due giorni. Ora il 118 arriva quasi regolarmente”.
Con il virus Sars-CoV-2 in circolazione, prosegue la dottoressa, “sono saltati tutti i modi in cui eravamo abituati a curare i pazienti”. Ora bisognerà reinventare tutto, anche l’accesso allo studio. “Da lunedì lasceremo uno spazio per poter visitare. Dovremo trovare una formula per un accesso controllato”, che eviti contatti fra i pazienti in sala d’attesa, ma che “permetta anche di essere efficienti e di smaltire le visite necessarie”, spiega il medico di famiglia.
Nella zona rossa ci si arrangia come si può, anche con le protezioni. “Le operatrici che erano venute a farci i tamponi sono state molto gentili e ci hanno lasciato qualche mascherina di quelle più filtranti (Ffp2 e 3)”, e poi c’è la scatola di mascherine chirurgiche distribuita dall’Ats, continua C.P. “Volevamo fare un’ordinazione online di quello che ci manca, ma non si trova niente – racconta – anche facendo una ricerca fuori dalla zona rossa. L’urgenza è la protezione, un po’ di aiuto e anche di chiarezza. Perché metà del nostro lavoro è burocratico, tanto ha a che fare con il caos certificati di malattia, codici quarantena e altri problemi amministrativi”.
La vita, anche con la ‘lettera scarlatta’ del coronavirus addosso, continua tra “l’insofferenza di chi ha attività libero professionali, negozi e locali”, e i “tanti, troppi disagi” della gente normale, “passata – riflette C.P. – da una buona sanità a una quasi da terzo mondo, con situazioni in cui l’ambulanza la devi chiamare più volte per essere accettato. Se siamo andati in tilt noi in una zona con tutto sommato pochi abitanti, non oso immaginare cosa può succedere se l’epidemia si allarga ad altre realtà più grandi, alle città. In pochi momenti della mia carriera mi sono sentita così abbandonata”.
Qui “abbiamo sperimentato la virulenza” di Sars-CoV-2 e “il numero di casi contemporanei che si può accumulare. Sicuramente in questo momento non si possono fare statistiche credibili – dice la dottoressa – Il numero di persone in terapia intensiva appare esagerato”, visto che si può rapportare solo sui casi positivi che si riescono a trovare e i tamponi ora si fanno solo ai sintomatici. “Ma d’altra parte colpisce che noi in una cittadina di circa 4.600 abitanti abbiamo avuto 19 morti concentrati in due settimane. Metti che qualcuno non è ovviamente correlato al nuovo coronavirus, ma comunque normalmente i decessi in un anno sono 50-60”.
All’inizio “ti senti arrabbiata – confessa C.P – e ti dici che non è possibile che una grande sanità non riesca a garantire servizi avendo a che fare con un problema in un’area di 5-10 mila abitanti. Cosa succederebbe sui grandi numeri? Poi, quando abbiamo visto impennarsi i casi, abbiamo capito la complessità della situazione e le difficoltà che si possono incontrare nel gestirla. Preoccupa per esempio che questo primo cluster ha avuto ancora accesso alle rianimazioni. Le difficoltà aumenteranno se i posti cominceranno a scarseggiare. La contagiosità di questo virus – ammonisce – non va sottovalutata”.
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