“Voglio essere ricordato così, come un giovane Black Dragon entusiasta: l’occhio stanco ma fiero, dopo la quarta o quinta (…o era la sesta?) proiezione quotidiana; il cartellino da accreditato al collo, sfoggiato a mo’ di titolo onorifico e/o trofeo (toglietemi tutto ma non il mio badge); e quell’aria un po’ così, trasognata e sbadata, in mezzo alla folla dei curiosi e del popolo festivaliero. Sono (come diceva lo slogan di un paio d’anni fa) un Feff Addicted, e questo è il mio breve ma intenso diario di viaggio.”
In questa rubrica a firma di Filippo Zoratti verranno recensiti alcuni film presentati al Far East Film 12. Ogni giorno potrete leggere nuovi commenti e partecipare lasciando un vostro commento
Venerdì 30, Sabato 01
And the Winner is…
CASTAWAY ON THE MOON
(Lee Hey-jun, South Korea 2009)
Aggiudicandosi sia Black Dragon che Audience Award con due medie spaventose (4,56 e 4,70 su un massimo di 5) Castaway ha sbancato il Far East Film Festival sfruttando sia le proprie caratteristiche da film pop(olare) che stupendo il pubblico più critico e “scafato”. A questo va aggiunto l’inevitabile “Effetto Welcome to Dongmakgol”, il film coreano che nel 2006 – complici l’euforia e l’entusiasmo dell’ultima serata di festival – scippò il primo posto al vincitore annunciato Always. E una pellicola come Castaway il pubblico la stava aspettando, da 9 pazienti giornate. A metà via tra Lost e il Cast Away con Tom Hanks, l’opera di Lee inizia con un tentato suicidio; “tentato” perché il protagonista Kim dopo essersi buttato giù da un ponte di Seul si ritrova sull’isolotto in mezzo al fiume Han. Senza cellulare e incapace di nuotare, a Kim non resta che un tentativo di sopravvivenza. Dalla disperazione alla felicità per la propria nuova condizione il passo è breve: Kim ora non vuole più ritornare alla civiltà ed impara ad amare il “suo” Eden, senza problemi, debiti e imposizioni sociali. Ma qualcuno da lontano lo osserva, e inizia ad interagire con lui. E’ una ragazza, si chiama anche lei Kim e appartiene come il Nostro superstite alla categoria
dei “solitari dall’animo sensibile” (anche se nel caso di lei si tratta di una scelta di isolamento precisa e non casuale). Bizzarro fantasy/comedy/drama, questo insolito naufragio parte da premesse così eccentriche da non riuscire in parte a sfruttare il suo potenziale e seminando forse più riflessioni di quante ne
raccolga. Ma è un cinema a tal punto trasognato e carico di speranza da farci dimenticare all’istante dubbi, domande ed incongruenze.
Voto: 8
IDENTITY
(Aria Kusumadewa, Indonesia 2009)
Vincitore di 4 Oscar indonesiani, fortemente amato dai selezionatori del Far East e addirittura paragonato a Bunuel per il suo sottotesto sarcastico, Identity è uno degli oggetti più spiazzanti e inclassificabili della selezione 2010. Un ufo che fa di tutto per rendersi sgradevole, che ci smuove dalle nostre poltroncine e, per rigetto, ci fa alzare e uscire dalla sala. Adam (nomen omen) pulisce cadaveri all’obitorio e colleziona i cartellini d’identità legati agli alluci dei defunti. Attorno a lui c’è il degrado dello sporco e malorganizzato ospedale in cui lavora, la corruzione e la follia di un luogo che tratta i bisognosi con disprezzo e approssimazione, e una folla di anime senza nome e storia, tra le quali Adam vede una giovane disperata che chiamerà Hawa (Eva). Per il regista Kusumadewa evidentemente il cinema d’impegno ha un unico significato: metafora, simbologia. Gli 86 minuti di Identity sono a tal punto calcati e pigiati sul tasto dell’allegoria da sfondare nel grottesco, e di conseguenza nel poco credibile e a tratti nel ridicolo. Sconvolgente per il pubblico indonesiano, non ne dubitiamo; ma altrettanto irricevibile per quello occidentale. Perlomeno senza un’adeguata presentazione e spiegazione.
Voto: N.C.
BOYS ON THE RUN
(Miura Daisuke, Japan 2010)
Il leit motiv dello sfigato imbranato è un vero e proprio sottogenere della cinematografia asiatica (in questo See You After School, quinto a Far East 8, è oramai divenuto un termine di paragone). Di solito ambientato nei college e incentrato su giovani nerd bramosi di successo amoroso e sociale, può anche spingersi fino a scenette puramente scatologiche o “fisiche”, nel senso di dialoghi aperti con proprie parti del corpo (l’anno scorso il protagonista del film Lalapipo parlava col suo pene e ne ascoltava gli insegnamenti). Boys on the Run inizia con questo tipo di demenzialità, introducendoci nel mondo di Tanishi,
pornofilo perdente e ancora vergine che ama in segreto una collega di lavoro. Ma in breve il film di Miura Daisuke cambia strada, assestandosi su una più classica commedia di formazione e crescita personale. Caratteristiche queste che se da un lato rallentano il flusso della comicità pura e delle gag nonsensiche, dall’altro rendono la pellicola più realistica e verosimile. Mantenendo le proprie qualità di spensieratezza e leggerezza, ecco l’insegnamento finale: non il superamento a tutti i costi dei propri limiti, ma la consapevolezza e l’accettazione di essi. Il tutto in un unico e riuscito finale
(grazie Giappone, grazie).
Voto: 7
IP MAN 2
(Wilson Yip, Hong Kong 2010)
Il film di chiusura del festival (in un’atmosfera di fermento e impazienza, per l’attesa della proclamazione del vincitore) è – naturalmente – il seguito di Ip Man, visto a Far East 11. La storia del maestro di Bruce Lee, che nel capitolo uno si chiudeva con la promessa di una nuova vita nella Hong Kong del dopoguerra, riparte dal 1950. In fuga dalla Cina con la moglie, Ip Man apre una scuola di arti marziali (wing chun) sul tetto di un edificio. Pochi fronzoli, il Nostro apre la sua attività e si scatenano le battaglie: contro un maestro rivale e contro gli occupanti inglesi, entrambi spaventati dal suo ascendente sul popolo. Per divertirsi basta capire “cosa” guardare: non di certo la trama, svergognatamente gonfia di cliché e decisamente romanzata; ma gli scontri, i combattimenti e le azioni spettacolari vero fulcro dichiarato della vicenda. Con quelli c’è da godersela. Fino allo scontro finale sul ring tra Ip Man e
il pugile inglese Twister, stupendo copia & incolla di Rocky IV, già di suo tremendo film-caricatura, di cui Ip Man 2 assorbe con ostentazione stile e moralismo patriottico. Siamo pronti per Ip Man 3.
Voto: 6
Martedì 27, Mercoledì 28 e Giovedì 29
THE MESSAGE
(C. Kuofu & G. Qunshu, Cina 2009)
The Message si presenta alla platea udinese con tutte le carte in regola per stupire: attori di primo livello, incassi casalinghi più che lusinghieri e una trama spy thriller destinata – sulla carta – ad intrigare. Ambientata nel 1942, la storia ci parla di sinistri agenti governativi che cercano, in un lussuoso castello sul mare, di smascherare Phantom, spia della Resistenza. Una specie di Cluedo stile Signori, il Delitto è Servito, con molto meno humour e molte più atmosfere dark e scene e scene di tortura. Cosa che a ben vedere è un miracolo per il cinema cinese, ingabbiato in una rigida e castrante censura. Perfetto, esteticamente parlando; ma l’esercizio alla lunga stanca, se non sorretto da un contenuto avvincente. Ci sono doppi, tripli e quadrupli giochi, improbabili messaggi segreti infilati in improbabili cuciture di giacche, e uno spiegone finale che evidenzia un importante problema di scrittura: possibile che per sciogliere i nodi dell’intreccio ci si debba per forza affidare alla scorciatoia della voce fuori campo? Tirare le fila durante lo svolgimento del film (concedendoci così il lusso di partecipare “attivamente” alle indagini) non sarebbe stata una soluzione ben più accattivante?
Voto: 4 ½
PHOBIA 2
(Registi Vari, Tailandia 2009)
Sequel – solo nominale, dato che si tratta di film ad episodi – di 4bia, che l’anno scorso si aggiudicò
il secondo posto al Black Dragon Award.
Paurosa ma col sorriso sulle labbra, quella di Phobia è una messinscena dello spavento e delle
impennate di volume, da seguire ed accettare come si farebbe con i racconti di Halloween o della
(non) buonanotte. 5 gli episodi, 2 i più riusciti e quelli degni di menzione: il zombie-road movie
Dorm, incentrato su due giovani autostoppisti e un camion pieno di morti che camminano; e l’auto-
referenziale In the End, con una troupe intenta a finire le riprese di un film nonostante l’attrice che
interpreti il fantasma muoia e ritorni sul set… da fantasma.
Da Shutter ad Alone, passando per Body, già da qualche anno l’industria cinematografica tailandese
si è buttata sull’horror. Con risultati altalenanti, ma un forte impiego di registi giovani e liberi di
esprimere la propria creatività.
Meglio il capostipite 4bia, ma sgombrando la mente da pretese e diffidenze ci si può benissimo
divertire/terrorizzare anche con queste nuove phobie.
Voto: 6 +
LA COMEDIE HUMAINE
(C. Hing-kai & J. Chun, Hong Kong 2009)
Trascinata dal carisma del suo protagonista Chapman To, La Comedie Humaine è una delirante ed
anarchica rappresentazione della follia della vita, dei rapporti umani e dei sentimenti. Con un occhio
alla crisi economica e alla depressione che ha avviluppato Hong Kong, la vicenda intreccia le storie
di un killer cinese, di uno sceneggiatore imbranato e romantico e di una tanto psicotica quanto
luminosa impiegata di museo.
Potrebbe essere un dramma sentimentale, un film di gangster/arti marziali o ancora una commedia
rosa sognante e dolciastra. E invece è la presa in giro di tutto ciò, una satira che ci fa tutti prigionieri
e ci imbroglia di continuo cambiando registro e genere. Un divertissement dissacrante più acuto ed
intelligente di quanto possa sembrare, che vive i suoi momenti migliori quando snocciola pezzi di
vite inventate attraverso i titoli dei film o quando parodia il cinema action alla John Woo, con tanto
di colombe bianche in volo e duelli finali sanguinari ed epici.
Casomai servisse sottolinearlo, niente a che vedere con l’ultimo cinema demenziale yankee
(Hot Movie, Disaster Movie e tutti gli altri a seguire). Questa non è la solita stupida commedia
americana.
Voto: 7 +
THE ARRIVAL
(Erik Matti, Filippine 2010)
La possibilità di un’isola (felice); il desiderio di ricominciare tutto da zero; la voglia, prima assopita
e ora incontenibile, di mettersi ancora in gioco.
Leo è un modesto contabile di Manila. Tutto qua: una vita solitaria e in seconda fila, ignorato
dai colleghi e dai parenti, che lo danno per scontato e, ancora peggio, per ovvio. Quanto vale
un’esistenza così? Quanto può valere sull’altro piatto della bilancia un sogno, quando si è raggiunta
la tranquillità e oltre i confini del proprio quartiere c’è l’ignoto (per definizione destinato a farci
paura)? Leo, col pensiero fisso di una casa e di una bellissima donna che gli corre incontro per
baciarlo, prova a scoprirlo. E sarà un nuovo inizio doloroso ma comunque degno di essere vissuto,
se paragonato al nulla e alla pace dei sensi precedente.
Erik Matti (che ricordiamo più che altro per i fantasy Gagamboy e Exodus) gira in economia e
per lo più a cinepresa fissa, come guidato da un’impellenza narrativa che se ne frega delle regole
estetiche subordinandole a quelle di trama e contenuti (conta il Cosa, non il Come). Agrodolce
riflessione sull’identità imposta dagli altri e sulla necessità di possederne una propria, The Arrival è
un’opera che si prende i suoi tempi e richiede pazienza, per essere capita e assaporata fotogramma
dopo fotogramma.
Voto: 8
Domenica 25 e Lunedì 26
THE BUGS DETECTIVE(Sato Sakichi, Japan 2010)
Una coppia di coleotteri copula sul ramo di un albero. A pochi passi, una persona in impermeabile li osserva e li smaschera (il coleottero maschio è un adultero, e per la “legittima moglie” sarà un duro colpo). L’uomo è Yoshida Yoshimi, un detective capace di parlare con gli insetti e di “risolvere” i loro problemi. Ma probabilmente è anche Tanaka, un ex-poliziotto fallito e smemorato.
C’è da stupirsi di come il cinema nipponico riesca, partendo da soggetti esili e apparentemente degni al massimo di una gag da pochi minuti, a creare e sostenere intere trame e interi lungometraggi. E c’è da stupirsi anche a sapere che alla regia ci sia lo sceneggiatore di Ichi the Killer e Gozu, cult movies firmati Takashi Miike di ben altro genere rispetto a questo lavoro.
Ma tant’è, The Bugs Detective è un intrattenimento acuto ed esilarante (nei dialoghi tra animali più di ogni cosa), che tra le righe cela un’insospettabile gusto per la presa in giro della società giapponese.
Niente più di un’allegra pochade, s’intende, ma perché disdegnare questo passatempo surreale di metà mattinata?
Voto: 6/7
CITY OF LIFE AND DEATH(Lu Chuan, Cina 2009)
Se non fossero mai esistiti film quali Salvate il Soldato Ryan o Schindler’s List, ci ritroveremmo a giudicare questa pellicola in ben altro modo. Ma è altrettanto vero che i paragoni non andrebbero fatti, e ogni opera d’arte andrebbe considerata in quanto tale. Allora ci proviamo. Il blockbuster di Lu Chuan è un enorme affresco storico denso di epica e dolore, incentrato sul massacro di Nanchino (1937/38) compiuto dall’esercito giapponese sull’inerme popolazione cinese.
Appesantito da una prima mezz’ora macchinosa e urlata, City of Life and Death è un war movie saturo di scene madri e ralenty, girato in un bianco e nero uniforme che non conosce sfumature o gradazioni di sorta. Eppure, immedesimandoci anzitutto nei dubbi morali del soldato Kadokawa e nell’abnegazione del segretario John Rabe, qualcosa ci arriva: il senso della perdita, la tragedia di una popolazione impotente e mutilata nell’anima, prima ancora che nel corpo. Tutte cose già masticate ed assaporate in altre decine di film bellici. Ma così ritorniamo al punto di partenza.
Voto: 6
(Upi, Indonesia 2009)
THE LAST WOLF
Homo Homini Lupus. L’uomo è lupo per gli altri uomini, e nella lotta per la sopravvivenza ne resterà solo uno in piedi… the last wolf (standing).
Come ha già dimostrato l’anno scorso col melodramma Radit & Jani, la regista Upi ama le storie di strada, fatte di ingiustizie sociali & cadute negli inferi senza ritorno. Dall’amore impossibile tra due scarti della società ai conflitti tra gang per le vie di Giacarta il passo è brevissimo. Upi gioca a carte scoperte: messinscena da videoclip/spot pubblicitario, topos narrativo del gangster sfruttato e spremuto fino all’ultima goccia e una tendenza all’esagerazione del dramma che non conosce vergogna. Che si ami o si odi, è innegabilmente un cinema emulativo e derivativo (e qua i riferimenti si sprecano), che nella sua ostentazione di sovraccarico dolore puzza di pornografia. Grossolano e al contempo furbo, falso e insieme commovente, The Last Wolf riesce comunque a conquistare buone fette di platea. Un non trascurabile punto a favore per un prodotto dichiaratamente commerciale.
Voto: 5/6
LITTLE BIG SOLDIER
(Ding Sheng, Hong Kong/Cina 2010)
Leggi Ding Sheng ma vedi Jackie Chan, in ogni sua possibile declinazione: attore, produttore e coreografo. In libera uscita dal suo dorato esilio americano, il funambolo delle arti marziali ripropone anche in patria il cliché che l’ha reso famoso nel cinema occidentale: il mattacchione imbranato e buffo, capace di evoluzioni improbabili che sembrano frutto del caso. Facilissimo quindi entrare in sintonia col suo Big Soldier e simpatizzare con la sua faccia da schiaffi fin dalla prima scena, quando durante una battaglia (siamo nel Periodo dei Regni Combattenti) si finge morto per salvare la pelle. Da lì in poi il Piccolo Grande Soldato ci mostrerà tutta la sua umanità e il suo rispetto nei confronti del prigioniero Wei, principe nemico da barattare in cambio della libertà e di alcune terre. Ma l’evoluzione della storia ci porterà a ben altro finale, che ci farà amare ancora di più il personaggio di Chan e la sua epica lotta solitaria per la sopravivenza, affrontata sempre col sorriso sulle labbra.
Jackie Chan perde il pelo (gli anni non sono più 30, e nemmeno 40) ma non il vizio, e a giudicare dall’applauso scrosciante sui titoli di coda (i suoi usuali titoli di coda, con gli errori di ripresa al solito molto comici) Little Big Soldier è un outsider da non sottovalutare.
Voto: 7
Venerdì 23 e Sabato 24
SOPHIE’S REVENGE
(Eva Jin, China 2009)
Il film di apertura di Far East Film 12 è una divertente (?) e telefonata (!) soft comedy dai colori rosa pastello. Scontata fin dalle premesse, la storia narra di Sophie delusa dall’amore in cerca di vendetta sull’ex fidanzato traditore.
Sorta di Amelie imbranata, sognatrice (i voli di fantasia assomigliano molto a quelli del serial tv Scrubs) e incavolata, Sophie semina equivoci & coincidenze, oltre ad una buona dose di noia nello spettatore per la ripetitività delle situazioni in cui si imbatte.
Un film patinato che non prevede originalità (neanche gli inserti in CGI e animazione creano i dovuti sussulti), un prodotto Hollywood Style di larghissimo consumo – impreziosito da una Zhang Ziyi tutta smorfiette e sorrisi di plastica – atto allo “stordimento” del suo pubblico di riferimento, la platea cinese. Che evidentemente sogna Sex & the City e lieti fini zuccherini e si specchia nell’opulenza, nella bellezza e nella leggerezza di un mondo che, ahinoi, esiste solo su celluloide.
Voto: 4
DREAM HOME(Pang Ho-cheung, Hong Kong 2010)
Il Feff 12 scopre il suo primo asso nella manica (anzi il secondo, se si considera l’ospitata di Johnnie To pre-festivaliera) presentando in anteprima mondiale il nuovo film di Pang Ho-cheung, presenza fissa della kermesse (Beyond Our Ken, Trivial Matters). Tra i più promettenti autori della sua generazione, l’hongkongese Pang utilizza in Dream Home un’estetica da slasher horror per veicolare un preciso messaggio politico e sociale: la denuncia della speculazione edilizia che dal 2007 ha investito e prostrato il suo paese.
La protagonista Cheung Lai-sheung massacra gli inquilini di una palazzina, e attraverso flashback, salti temporali ed altre scene apparentemente slegate dal contesto, scopriamo via via il perché.
A funzionare in Dream Home sono la qualità della regia e l’impianto orrorifico, teso, spaventoso e, a suo modo, catartico; mentre la parte più prettamente narrativa rallenta assai la storia, rendendo arduo l’incastro tra gli scatti splatter e la parte più esplicativa dell’opera. Onore al merito e al coraggio di Pang, comunque.
Voto: 6 ½
KIMMY DORA(Joyce Bernal, Filippine 2009)
Eterna promessa raramente mantenuta, il cinema filippino è come un perenne adolescente che non vuole crescere: indeciso e confusionario, a tratti geniale ma spesso stucchevole e fine a se stesso. Principessa di questo modus operandi è la regista Joyce Bernal, vecchia conoscenza del popolo del Far East (Mr. Suave, Agent X44), che segue ogni suo nuovo (S)Cult Movie con affetto ed empatia.
Rispetto alle commedie e alle parodie (D’Anothers) precedenti, Kimmy Dora si eleva quel tanto che basta per non farci gridare allo scandalo e alla canzonatura. Forse merito della protagonista Eugene Domingo, brava e divertente nel doppio ruolo delle gemelle Kimmy e Dora; o forse merito di una trama scontata ma squisitamente demenziale, che una volta tanto riesce a non sfociare nella demenza più puerile.
Tra gag più riuscite (i puntatori laser dei fucili che creano disegni buffi sul viso di Kimmy) e altre meno (l’inseguimento della protagonista da parte dei sicari) il film scorre senza intoppi. Anche se l’unica a gioire appieno della messinscena è probabilmente la regista stessa.
Voto: 5 ½
GOLDEN SLUMBER(Nakamura Yoshihiro, Japan 2010)
Come reagireste se all’improvviso foste accusati e ricercati per un omicidio non commesso? E’ il guaio in cui si caccia Aoyagi, tranquillo autista di camion per le consegne, quando esplode l’auto del Primo Ministro e lui si trova troppo nelle vicinanze per non passare inosservato.
Invischiato in un intrigo spionistico più grande di lui, ad Aoyagi non rimane che la fuga, e la difficile scelta tra chi considerare amico e chi nemico nella sua lotta per la libertà.
Golden Slumber (titolo di una canzone dei Beatles) è un film attraversato dalla musica – d’altronde il regista è lo stesso di Fish Story – che riesce a mantenere alto il ritmo e a non scadere nella banalità grazie ad una efficace sceneggiatura ad incastro.
Nonostante i molteplici finali (male endemico del cinema asiatico) e nonostante sia facile smarrirsi tra i fili del complotto, questo film è forse il primo papabile per la vittoria di Feff 12.
Spettatori confusi, ma felici.
Voto: 7
Filippo Zoratti
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