Oltre 3700 ettari di superfici boscate bruciate per un volume di 194 mila metri cubi di biomassa andata perduta. È questa la prima stima dei danni provocati dagli incendi sul Carso italiano e sloveno delle scorse settimane elaborata dai ricercatori dell’Università di Udine. Lo studio è stato compiuto dal gruppo di ricerca Ambiente e Territorio del Dipartimento di Scienze agroalimentari, ambientali e animali.
La stima è stata ottenuta impiegando dati satellitari che consentono analisi su vaste porzioni di territorio e con livelli di dettaglio sempre maggiori. E questo non solo per studiare e prevenire, ma anche per fornire valutazioni sui danni in tempi relativamente rapidi dopo l’evento. La valutazione sì è avvalsa dei dati forniti dal satellite Sentinel-2, una missione dell’Agenzia spaziale europea nell’ambito del programma europeo di osservazione terrestre Copernicus.
Complessivamente l’area interessata dal fuoco copre una superficie di poco più di 4000 ettari, per lo più in Slovenia (3480 ettari). La superficie forestale interessata è stata di 3693 ettari, il 92 per cento del totale. Il Comune più colpito è Miren-Kostanjevica, in Slovenia, con 2750 ettari, mentre sul fronte italiano è Doberdò del Lago con 406 ettari.
In secondo luogo, incrociando i dati di intensità del danno, la misura delle altezze della copertura forestale e i dati di volume legnoso, è stato anche possibile modellizzare la biomassa forestale presente prima dell’incendio e quindi stimare la perdita avvenuta a seguito dei roghi, sia al di qua che al di là del confine con la Slovenia.
In totale, il patrimonio boschivo delle aree interessate dagli incendi ammontava a 614 mila metri cubi prima dell’evento. Il fuoco ha distrutto il 32 per cento, pari a 194 mila metri cubi, del volume iniziale dell’intera superficie.
Dall’elaborazione dei dati i ricercatori dell’Ateneo friulano hanno concluso che per fortuna gli incendi non sembrano aver distrutto completamente la vegetazione. Per almeno tre possibili ragioni: la particolare morfologia dell’area; la presenza di aree rocciose che hanno in qualche modo ostacolato la diffusione delle fiamme; il pronto intervento da terra e dal cielo degli operatori antincendio.
«Grazie alle immagini multispettrali fornite dai satelliti – spiega Luca Cadez, dottorando in Ambiente e vita – è stato innanzitutto possibile stimare la superficie bruciata e l’intensità del danno usando uno specifico indice implementato per monitorare questo tipo di eventi di disturbo degli ecosistemi forestali e associandolo alle classi di intensità dell’incendio definite dall’European Forest Fire Information Service. Ciò ha poi consentito di stimare l’entità del danno in termini di volume legnoso bruciato».
Secondo Giorgio Alberti, professore di selvicoltura e assestamento forestale, «quanto accaduto sul Carso deriva da diversi fattori: il cambiamento climatico che porterà ad avere estati sempre più siccitose e quindi biomassa secca altamente suscettibile ad essere incendiata anche accidentalmente; la mancata o ridotta gestione delle superfici boschive, soprattutto in prossimità di centri abitati e infrastrutture, dove la probabilità di inneschi involontari aumenta considerevolmente; la presenza di specie non autoctone, come il pino nero, che in condizioni siccitose sono più suscettibili a prendere fuoco. L’incendio ha distrutto non solo la biomassa legnosa, ma ha provocato anche modificazioni degli habitat per gli animali oltre che il venir meno di importanti funzioni svolte dal bosco, ma più difficili da quantificare in questa prima fase post emergenza».
In questo contesto, sottolinea Alberti, «le moderne tecnologie di rilievo del territorio da remoto sono strumenti potenti a servizio della conoscenza e della prevenzione di eventi catastrofici quali quelli che nell’ultimo mese hanno colpito il Friuli Venezia Giulia».
Approfondimenti sull’intensità del danno e sulle implicazioni per un potenziale ripristino naturale o artificiale saranno condotti nei prossimi mesi dall’Università di Udine, in collaborazione con l’Università di Trieste e con il Geolab dell’Università di Firenze, anche con l’uso di droni e specifici rilievi a terra.