“Mio padre diceva che i tedeschi avrebbero dovuto sterminare la sua famiglia, prima che lui permettesse loro di uccidere gli ebrei ospiti a casa nostra”. Forse bastano queste parole, un ricordo dell’Albania nel pieno della seconda guerra mondiale, per raccontare il senso di “Besa – Un codice d’onore: Albanesi musulmani che salvarono ebrei ai tempi della Shoah”, la mostra fotografica inserita quest’anno nel calendario di iniziative organizzate dal Comune di Udine per la Giornata della Memoria. L’esposizione, che sarà inaugurata martedì 27 gennaio alle 18 nelle Gallerie del Progetto di palazzo Morpurgo, si basa sulle foto scattate dal fotografo americano Norman H. Gershman, che per cinque anni ha percorso l’Albania recuperando le testimonianze dello straordinario salvataggio che riguardò quasi duemila ebrei e documentando i ritratti dei salvatori e dei loro discendenti.
La mostra, curata per l’Italia da Istoreco, l’istituto storico di Reggio Emilia, è stata realizzata dallo Yad Vashem di Gerusalemme, il famoso istituto israeliano per la ricerca e la commemorazione delle vittime della Shoah che – fra gli altri incarichi – ha il compito di nominare i “Giusti fra le Nazioni”, donne ed uomini di origine non giudaica che durante la guerra salvarono degli ebrei. Fra questi, ad oggi, vi sono 69 albanesi. Al centro dell’iniziativa l’affascinante e poco nota storia dei tanti albanesi musulmani che durante il conflitto salvarono la vita a persone di origini ebraiche, profughe o abitanti in Albania, tutte inseguite dai nazisti. Il piccolo Paese balcanico è una piacevolissima eccezione, per l’Europa degli anni ’40: al termine della guerra vi erano in Albania più ebrei che all’inizio del conflitto, perché tante famiglie musulmane per anni si impegnarono a proteggere questi fuggitivi.
“Besa” mostra con immagini e parole i testimoni diretti della solidarietà dell’Albania della guerra, concentrandosi su chi allora era bambino e oggi può raccontare quanto accaduto. A partire dai numeri. Nel 1933 l’Albania contava 803 mila abitanti, fra cui solamente 200 ebrei. Ma quasi 2 mila profughi arrivarono dalla Germania dopo il 1933 e con l’arrivo di Hitler al potere. Altre migliaia vi cercarono rifugio dopo il conflitto. Nel piccolo Paese balcanico, di cui facevano parte porzioni di territorio montenegrino, kosovaro e macedone, già a partire dal 1943, anno in cui iniziò l’occupazione nazista, la popolazione albanese si rifiuta di obbedire all’ordine degli occupanti di consegnare le liste degli ebrei che risiedono entro i confini nazionali. Inoltre varie agenzie governative forniscono a molte famiglie ebree documenti falsi, con cui mischiarsi nel resto della comunità, senza far distinzione fra ebrei “albanesi” e profughi.
Alla base di questa scelta un fortissimo obbligo morale, un codice d’onore ritenuto ancora oggi il più elevato codice etico dell’Albania e riassunto dalla parola “Besa”, che significa letteralmente “mantenere una promessa”: colui che agisce secondo il “Besa” è una persona che mantiene la parola data, qualcuno a cui si può affidare la propria vita e quella dei propri cari. La mostra sarà aperta dal 30 gennaio all’8 marzo dal venerdì alla domenica dalle 15 alle 18 e la domenica anche dalle 10.30 alle 12.30.
Nei prossimi giorni proseguono le altre iniziative inserite nel programma della Giornata della Memoria. In particolare lunedì 26 gennaio alle 17.30 sala Ajace ospiterà l’incontro pubblico “Il programma Aktion T4. Vite indegne di essere vissute”. Ad approfondire il tema del “T4”, meglio nota come “eutanasia nazista”, perpetrata nei territori occupati dai tedeschi nel periodo tra il 1939 e il 1945 ai danni dei malati di mente e di persone affette da malattie fisiche, sarà la professoressa Antonella Tiburzi, docente dell’università di Bolzano.