PORDENONE – Un filo rosso unisce l’evento di produzione dedicato a “Il Diario di Anna Frank”, al debutto nelle scorse settimane a Pordenone, e la suggestiva mostra che si apre sabato 28 novembre nell’Abbazia Santa Maria in Sylvis di Sesto al Reghena, “Con il piede straniero sopra il cuore. Europa 1943 – 1945: tre testimonianze friulane. Moretti Ceschia De Rocco”.
Trait d’union delle due iniziative culturali è l’edizione 2015 del Festival Internazionale di Musica Sacra promosso dal CICP, Centro Iniziative Culturali di Pordenone con PEC, Presenza e Cultura: un percorso speciale del festival è quest’anno rivolto agli anni della Seconda Guerra Mondiale, per aprire uno sguardo intenso non solo alle vicende dei campi di battaglia, ma anche ai massacri nei campi di concentramento, dove una razionale macchina organizzativa e burocratica fu messa al servizio della strage. Anche la testimonianza dell’arte può gettare un fascio di luce su quegli anni di buio così tetro, ed è questo l’obiettivo della mostra che, in collaborazione con il Comune di Sesto al Reghena, si inaugura sabato prossimo nell’Abbazia Santa Maria in Sylvis, con vernice alle 17. Il pordenonese Mario Moretti, l’udinese Luciano Ceschia e il sanvitese Federico De Rocco sono personalità note dell’arte del Novecento, accomunate da forti esperienze di guerra e reclusione nei campi di internamento. «All’epoca – spiega il curatore della mostra, Giancarlo Pauletto – tutti e tre gli artisti avevano meno di trent’anni. Erano quindi impegnati nelle loro opere giovanili, già assai probanti di una maturità tecnica e culturale». «Tre importanti artisti che rappresentano il Friuli Venezia Giulia ben oltre i confini nazionali – sottolinea Maria Francesca Vassallo, presidente del CICP – La lunga storia di Sesto al Reghera e della sua Abbazia, nel tempo sempre al centro di un intersecarsi di vicende che hanno lasciato il segno nel suo borgo e nelle sua mura, offrono l’occasione per ricordare questi artisti commemorando il settantesimo della fine della Seconda Guerra Mondiale. E stimolare riflessioni sulle divisioni dell’uomo che restano di sconcertante attualità». Ideale prosieguo della mostra, visitabile con ingresso libero da giovedì a domenica e nei giorni festivi (dalle 10 alle 12 e dalle 15 alle 19) saranno gli incontri in programma nel mese di gennaio al Centro culturale Casa Zanussi di Pordenone: “Fascismo e nazismo fanno ormai parte solo della storia? Il lascito delle dittature nel nostro tempo” è il tema della relazione affidata allo studioso Gustavo Corni, dell’Università di Trento (lunedì 11 gennaio 2016, ore 15.30). “Donne e uomini in terre di confine” è invece il tema dell’incontro con Marta Verginella, storica dell’Università di Lubiana. (Lunedì 18 gennaio 2016, ore 15.30). Info: tel 0434 365387 www.centroculturapordenone.it
Mario Moretti (Reggio Emilia 1917 – Pordenone 2008) studiò all’Accademia di Venezia avendo come maestro Bruno Saetti, operò per molti anni come insegnante in area pordenonese, fu pittore, scultore, ceramista, orafo, allestì molte mostre personali, partecipò quattro volte alla Biennale di Venezia e fu presente anche alla Quadriennale di Roma. Militare e ufficiale, l’otto settembre 1943 è a Dubrovnik, da dove viene internato prima in Polonia, poi in due campi tedeschi non lontani dai confini danesi. Dalla prigionia riesce a riportare uno straordinario gruppo di disegni e acquarelli che testimoniano la vita nei campi in cui fu internato. Sono figure colte nella desolata solitudine delle baracche, distese sulle brande in atteggiamento d’abbandono, oppure raccolte attorno a un tavolo, o nei rari momenti di svago rappresentato soprattutto dalla presenza di strumenti musicali. Sono spesso figure isolate, ammalati in attesa della guarigione o, più probabilmente, della morte: qualcuno ha lo sguardo fisso, allucinato, altri sono fermi in attesa, qualcuno legge, qualcuno dorme. In un autoritratto Moretti si rappresenta con il berretto militare, la testa fasciata, la pipa in bocca, lo sguardo fisso in avanti. C’è uno smarrimento nel volto, che l’autore riesce ad oggettivare benissimo, testimonianza di una capacità di riflessione che le dure condizioni del campo non sono riuscite a spezzare, l’artista sopravvive nell’uomo, anzi, l’artista è, in questo momento, la forza stessa dell’uomo. Poi c’è lo sguardo all’esterno, sul breve, limitato paesaggio che dalle baracche può essere colto: magri alberi, torrette, scure costruzioni, binari, il bosco esterno come una specie di desiderio, le figure degli internati appoggiate qua e là, isolate, ognuna carica della sua pena, ognuna stretta alla sua sopravvivenza: tutto è fermo, bloccato nell’autunno e nell’inverno di questi paesaggi, la resistenza nella vita è una volontà sotterranea, ostinata, aspetta un futuro che non può crearsi da sola.
Luciano Ceschia (Tarcento 1926 – Udine 1991) si formò nel disegno e nella pittura a contatto con Tiziano Turrin, valido pittore tarcentino, indi nella scultura con Antonio Franzolini a Udine. Fu prigioniero in Germania nel 1944-45, nel dopoguerra frequentò il liceo artistico a Venezia, poi interrotto; partecipò alle attività del gruppo neorealista friulano, fu presente nel 1962 alla Biennale di Venezia, allestì importanti mostre personali tra l’altro a Roma, New York Toronto, Vienna, operò con il ferro, con il cemento, con la pietra, con il marmo, fu eccezionale ceramista. Come spesso gli scultori, Ceschia fu un forte disegnatore, negli anni a cavallo del 1950 e poi lungo il decennio affrontò con impegno il tema partigiano e contadino, lasciando carte dal forte impatto chiaroscurale, a volte di grandi dimensioni, percorse da un tono epico e popolaresco. Importa all’artista mettere in evidenza, della resistenza contro il fascismo, la necessità morale, il fatto che si trattava di recuperare una dignità di popolo perduta, da ciò l’impianto largo di queste figure, anche quando si tratti di non grandi dimensioni. Di una simile forza l’artista dava contemporaneamente prova anche nella scultura: due terrecotte, in mostra, testimoniano di questa capacità, il ritratto di un capo partigiano e la potente, drammatica testa di un recluso, di un torturato: la volontà di dire diventa qui una maschera espressionista di formidabile capacità comunicativa.
Federico De Rocco (Turrida di Sedegliano 1918 – San Vito al Tagliamento 1962) studiò a Venezia con Saetti, partecipò alle mostre del neorealismo, fu presente alla Biennale di Venezia e alla Quadrienale di Roma, fondò, assieme a Pier Paolo Pasolini e ad altri artisti ed intellettuali la celebre Academiuta di lenga furlana, collaborando all’altrettanto celebre Stroligut, per il quale diede disegni e incisioni. Militare, durante la guerra, sul fronte francese, dopo l’otto settembre riuscì a rientrare a San Vito, riportando dalla sua esperienza un gruppo di disegni che sono un pregevole diario dei tempi; successivamente si impegnò in una serie di opere aventi a tema i rastrellamenti tedeschi, le azioni partigiane, i lutti e le morti di quei tragici momenti. I disegni militari del 1942/43 colgono con immediatezza momenti di vita, sono, per così dire, esercitazioni a rendere la realtà nel suo peso e nell’accidiosa sospensione dei giorni di guerra. I disegni partigiani – che hanno tutti la natura dello studio, dell’impostazione che vorrebbe poi tradursi in opera finita, e in effetti alcuni di essi divennero oli su tela – hanno una drammaticità resa con grande efficacia, il Partigiano impiccato e il Partigiano ferito sono due prove di grande maturità, l’artista non ancora trentenne dimostra qui di aver trovato la sua strada, quella di un realismo profondamente antiretorico, atteggiamento che sarà proprio anche di tutta la successiva attività del pittore.