Ford, Dwan, Chaplin, Murnau, Flaherty, Keaton, Wellman, Christensen, Shimizu, Eisenstein, Pudovkin, Room… Basta questo elenco ampliabilissimo a far intuire meraviglie. Dove tutto ciò? Alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, naturalmente. Giunto alle soglie del trentennale, uno dei festival cinematografici più ammirati nel mondo fa tutt’altro che gestire l’eredità del proprio passato, convinto di aver finora scoperto solo la punta di un iceberg, sotto cui si cela il continente sommerso dell’epoca muta del cinema.
Ai nomi menzionati, che sono tra le punte dell’invenzione cinematografica di ogni tempo, se ne accostano altri, ancora sconosciuti o comunque meno affermati, su cui il festival scommette: altri due registi giapponesi della Shochiku (Shimazu e Ushihara), il sovietico-georgiano Kalatozov, i brasiliani Reis e Santos, un marginale tedesco come Jutzi, il francese sempre più rivalutabile Raymond Bernard…
Naturalmente come sempre la rassegna è divisa in sezioni curate con la massima attenzione scientifica, accompagnate da documentazione storica: ma accanto a questo, che rende il festival uno strumento di scoperta e di studio insostituibile, c’è quanto può raggiungere ogni tipo di spettatore, e quanto può essere ben colto percorrendo a volo d’uccello, con liberi collegamenti, un programma pur calibrato anche nei dettagli.
Le Giornate sanno inoltre intercettare grandi eventi. Il New Zealand Film Archive ritrova un lotto di film perduti, che per quantità e rarità è tra i grandi ritrovamenti artistici (non solo cinematografici) degli ultimi decenni, e naturalmente il film più desiderato del lotto, Upstream di John Ford, non può che arrivare a Pordenone, insieme al trailer di un altro film perduto del regista. E fortuna vuole che si tratti non di un qualsiasi Ford (e un qualsiasi Ford è capace di stupirci) ma del Ford liminale alla sua attrazione per Murnau: se tutte le epoche fordiane sono mature, qui vedremo una paradossale vecchiaia della sua giovinezza, come fosse il primo dei molteplici 7 Women che scandiscono la sua opera.
E allora ecco Murnau, con un frammento ritrovato del perduto Marizza restaurato dalla Cineteca Nazionale.
E nella sezione del Canone rivisitato, curata da Paolo Cherchi Usai, ecco il cineasta la cui opera si è alla fine intrecciata con quella di Murnau, Robert J. Flaherty, di cui si vedrà un “classico” da troppo tempo affidato solo a lontane memorie di visione e a scheletri storiografici, Moana.
E subito si vorrà correre dalla reinvenzione artistica dell’etnografia di cui fu capace Flaherty, verso la zona oscura, foresta tropicale dell’immagine filmica, che sono i film dei brasiliani Luiz Thomaz Reis e Silvino Santos sul “silenzio delle Amazzoni”, sguardo forse lumièriano sul territorio elettivo di un Herzog.
Ma (oltre ai paesaggi celtici di Grierson) anche i film di Kalatozov, accostato a Room in un 5+5 di opere dedicato a due tra i più rivalutabili cineasti sovietici, sono un cinema di paesaggi abbagliati dall’immagine, come si vide negli anni ’60 nei suoi finali film calligrafici del disgelo, che oggi ci appaiono piuttosto dei Malick sovietici, il cui segreto è celato certamente in questi tardi capolavori muti, mitizzati quanto poco visti, realizzati appunto dal georgiano Kalatozishvili slavizzato in Kalatozov. Difficile trovare qualcosa di più diverso rispetto alla sublime trasparenza dell’ebreo russo Room: altro cineasta di cui andrebbe scoperta anche la tutt’altro che minore vecchiaia, ma di cui la tarda epoca muta è di uno splendore fordiano, e non solo nella perla relativamente nota di Tretja meš?anskaja.
Sull’universo infinito del cinema sovietico sono caduti da tempo non solo muri geopolitici ma i muri stessi di chi voleva mettere un cineasta contro l’altro: Vertov piuttosto che Eisenstein, Dovzenko piuttosto che Pudovkin… e se l’anno scorso alle Giornate la proiezione di un grande Barnet ha saputo ricreare quel vertice di godimento che Rivette aveva ben intuito nel cineasta, le punte del cinema sovietico sono polimorfe, le censure che contrapponevano realismi a formalismi, collettivismi a individualismi sono cadute nel vuoto della storia. Alle Giornate di quest’anno vedremo insieme il classico dei classici (famoso fino alle ben note parodie) La corazzata Potëmkin di Eisenstein e La baia della morte di Room che, uscito subito dopo, ne era diventato all’epoca l’anticlassico. E poi il Pudovkin di Chess Fever, con la sua formalizzazione chiusa da gioco di scacchi col cinema. Per fortuna nessuno Zdanov ci dirà che uno di questi è umanitariamente progressivo e l’altro decadentemente esecrabile; il cinema è sopravvissuto meglio delle idee che se ne sono fatte.
Tornando a Ford, come non volerlo vedere anche in rapporto al Robin Hood (nella magnifica nuova copia a colori del MoMA) di Allan Dwan? Ovvero al regista che insieme a Walsh costella la triade dei grandi eredi di Griffith.
E poi Buster Keaton coi suoi paesaggi messi in scena dall’invenzione comica: il suo The Navigator aprirà le Giornate mentre la navigazione celeste del Wellman di Wings le concluderà. E se Keaton potrà essere visto accanto a Chaplin, nel film ritrovato in cui appare, e a Linder e agli altri comici della rassegna francese (con regie rilevanti di Feuillade, Machin, Capellani…), di Wings potremo vedere il prolungamento in Shingun di Ushihara che ne restò segnato.
Tutto l’universo Shochiku sarà un altro continente infinito, a smentire ogni canonizzazione forzata di una cinematografia, la giapponese, in cui qualche decennio fa si cominciava ad aggiungere la conoscenza internazionale di Ozu a quella di Mizoguchi, e poi quella di Naruse, di Gosho… infine Lourcelles ha saputo evidenziare la grandezza di Shimizu quale perno di un neorealismo profondo connaturato al cinema. Ora conosceremo davvero Shimizu, ma anche Shimazu e Ushihara… e se nell’opera del primo ritroveremo la splendida Michiko Kuwano, del terzo vedremo la serie di film con la grande Kinuyo Tanaka, a unire nella loro luminosa giovinezza due attrici poi marcanti per Mizoguchi.
Anche prima di abbandonarsi alle visioni, i percorsi delle Giornate sollecitano attrazioni. Ci sarebbe da dire almeno ancora dell’avanguardia francese di Germaine Dulac e Alberto Cavalcanti che sarà accompagnata dall’invenzione musicale di Maud Nelissen; e dello “spettacolo d’addio” della Lanterna magica dell’appassionata Laura Minici Zotti; del postdannunziano Il fuoco di Piero Fosco-Pastrone; dell’eisensteiniano inglese Ivor Montagu nel cui film vedremo insieme Charles Laughton e Elsa Lanchester. Uno spazio di “approfondimenti” sarà, tutti i giorni nel tardo pomeriggio, quello della sezione “Portaits”, che includerà anche il ritratto del citato Kalatozov. E infine una rassegna di “making of” primordiali che moltiplicherà le nostre visioni oltre la compiutezza (o la conservazione) dei singoli film: riprese sui set del trittico infinito di Abel Gance, su quello iperstilizzato di L’Argent di L’Herbier, sulla partenza di un treno nel Quartier Latin di Genina filmata da Chenal e Mitry. Cioè da colui che dà il nome al Premio assegnato ogni anno alle Giornate, momento tra i tanti “live” (collegi, performance musicali, Jonathan Dennis Lecture, incontri umani, trouvailles di libri o dvd) che rendono le immagini cinematografiche del più lontano passato momenti intensi di un vivere al presente.