All’epoca aveva tredici anni e quelle preghiere della nonna, che da settimane invocava il Signore di “non fare venir giù il Toc”, le vedeva come una sorta di lamento scaramantico. Ma quella notte alle 22.39 del 9 ottobre 1963, nel giro di pochi secondi, ha capito che quelle proteste dei paesani, che da mesi temevano per la loro incolumità, erano drammaticamente reali. Mauro Corona oggi è uno degli scrittori italiani più affermati, anche grazie alla sua magistrale capacità di tratteggiare, nei suoi libri, i luoghi del Vajont e di una Erto che non esiste più.
“Il ricordo più nitido – spiega Corona – è l’enorme boato che precedette e accompagnò l’onda assassina. Basti pensare al frastuono infernale che fa un camion di ghiaia quando ribalta il cassone in un cantiere. Nel nostro caso, si rovesciarono 300 milioni di metri cubi di montagna nel lago sottostante. Ancora oggi, quando sento rumori violenti, mi scuoto e la mente torna inevitabilmente a quella notte”.
“In realtà – ricorda lo scrittore -, non ci accorgemmo subito del dramma, perché un costone del monte Borgà salvò la vita di tutta la famiglia, deviando la traiettoria dell’onda, che ci scavalcò miracolosamente. E nemmeno capimmo la portata della tragedia. I vecchi ci dissero di salire verso la vetta della montagna, fino a che, raggiunto un rifugio, mi misero a dormire sopra un tavolo. Nel frattempo, un compaesano scese a controllare cosa fosse successo. Tornò ore dopo, affranto: ‘Non vedo le case di San Martino’ annunciò, in lacrime, dopo aver ispezionato l’area con la sola fioca luce di una pila tascabile, ‘ma sopratutto – disse – non riesco più a scorgere le luci di Longarone”. L’alba spalancò, agli occhi dell’allora giovanissimo Corona e dei suoi congiunti, la vastità della tragedia.
“Sotto di noi era tutto di colore giallo – rammenta -, una sorta di paesaggio lunare, informe. Nessuno aveva il coraggio di parlare. Furono minuti di annientamento psicologico, fino a che si udirono i rotori degli elicotteri dell’Esercito, che iniziavano ad arrivare sul fronte della frana”.
Qualche ora dopo, Corona e i pochi altri superstiti vennero sfollati a Cimolais: “Fu lì che il giorno seguente, il presidente della Repubblica, Antonio Segni, mi prese in braccio visitando le popolazioni smembrate dal Disastro. Fu anche l’unica volta che un Capo di Stato raggiunse Erto. Da allora, tutti si sono fermati a Longarone o alla diga, ma nessuno è venuto a vedere il paese che non c’è più, dilaniato dalla frana e dall’onda, mentre la comunità è stata divisa in due: una parte in Veneto e l’altra nella pedemontana friulana. Il mio appello va, quindi, a Napolitano, ma anche a Papa Francesco: per il 50esimo della tragedia salite in valle, visitate il coronamento della diga, ancora perfettamente intatta, e preghiamo assieme per le vittime e per chi è rimasto orfano della sua gente e della sua terra”.
È questo il più grande rammarico dello scrittore: l’oblio e la distruzione della sua Erto. Assieme ai commenti fuorvianti dei grandi intellettuali dell’epoca: “Giorgio Bocca sostenne per tutta la vita la teoria della disgrazia naturale, mentre Dino Buzzati, sul Corriere della Sera, scrisse che fu come un sasso caduto in un bicchiere. No, caro maestro: quel masso non è caduto, ma l’ha lanciato la mano assassina dell’uomo, inseguendo il profitto a scapito di duemila vite umane”.
(ANSA.IT Lorenzo Padovan)