Voyage of time è il film che Malick ha costruito in 30 anni. E in effetti è Malick elevato alla ennesima potenza sgravato per di più dalla necessità di dover seguire una vicenda narrativa se non quella della storia dell’universo. Ma non solo. Voyage of time è una sorta di stele di Rosetta che permette di ri-leggere i film precedenti (da “La sottile linea” in poi) del regista americano. E il Malick che emerge da questa opera summa non fornisce risposte fideistiche come poteva apparire da alcune sue opere precedenti (“Tutto splende”).
il filo che conduce l’intero film è l’ineluttabilità del dolore e della violenza (mostrata attraverso immagini contemporanee di disagio urbano, di guerre e rivoluzioni del medioriente, di terremoti e disgrazie varie, regolarmente girate in 4:3 e tratte da telefonini e telecamere amatoriali) che mal si concilia con la grazia della natura e dell’evoluzione. Fin dall’inizio la voce narrante di Cate Blanchett invoca la grande madre e la sua ricerca e termina (attenzione: pseudo spoiler) con “Quando ti amo, che cosa amo?”.
Un tema quello del “male e della morte” che già era stato tracciato nelle opere precedenti di Malick (“Che cos’è questa guerra stipata nel cuore della natura?”) e che qui esplode come inconciliabile. La soluzione? La ricerca dell’essere (in termini che appaiono molto heideggeriani) e l’amore. L’amore fra uomini può lenire questa incurabile malattia del non senso della natura e dell’esistenza? I film precedenti di Malick suggerirebbero di no (il soldato Jack Bell ne “La sottile” viene lasciato dalla moglie mentre è in guerra, in Tree of life l’amore scompare ben tre volte, dal punto di vista del padre, del marito e del fratello/figlio) anche se in Voyage of time l’amore alla fine pare l’unica medicina per lenire, ma non curare, il senso di vuoto e l’angoscia della finitezza della nostra esistenza.
La violenza è davvero insediata “nel cuore della natura” tanto che gli animali si sterminano fra di loro (ghepardo e gazzella, foca e pesce) e l’uomo quando prende coscienza di sé come individuo (la magnifica – e memorabile – scena in cui un primitivo si guarda riflesso nell’acqua e guarda in camera percependo la distanza fra sé stesso e gli altri della sua tribù scoprendo l’egoismo che lo conduce alla violenza (in questo senso i richiami – almeno da spettatore – a 2001 sono molteplici).
Il Malick che emerge da questa opera meditata in 30 anni è dunque un nichilista alla disperata ricerca di un essere che posso salvare la sua esistenza. Malick alla fine ci avverte però che l’essere è dovunque “sei coppa e sei vino” in una sorta di panteismo ontologico; Dio è dovunque ma non è un dio morale, non c’è premio e punizione, non c’è legge che non sia quella della natura, nascere, riprodursi (tutto lo sforzo per rirpodursi dice la voce della Blanchett” e morire in un eterno ciclo del tempo che si conclude con la civiltà contemporeanea tutta consumismo in una ripresa che ricorda moltissimo “Koyaanisqatsi”)
Perché proprio il tempo è l’altro aspetto chiave del film: occhio spoiler – l’opera termina con qualcosa che somiglia al big crunch o comunque alla scomparsa della terra assorbita da un buco nero. Un eterno ritorno del tempo che viene evocato anche nel finale di Tree of life – il girasole simbolo del riciclo e del ritorno. Le interpretazioni sono ancora da indagare a partire dalla presenza della sezione aurea nella locandina (un numero che troviamo in relazione alla sequenza di Fibonacci anche in natura e proprio nell’ellisse dei girasoli e nel DNA) e del tempo come aspetto fondamentale di “Essere e tempo” di Heidegger